Viviamo in un’epoca in cui i social ci stanno abituando a vedere quel che vogliamo vedere. Siamo noi che selezioniamo i nostri amici sui social, dunque il più delle volte siamo aggiornati su quel che ci piace, sui nostri mondi, su chi è vicino a noi, sul simile, non sul diverso.
Ascoltiamo musica da Spotify o simili app, dunque riceviamo playlist su misura, che rispondono ai nostri gusti originari, e aprirci a qualcosa di diverso non è facile, presuppone un attivazione che + certo meno immediata rispetto alla musica “creata per te”.
Amazon sa esattamente cosa desideriamo acquistare da qui a un mese, ha il nostro storico, e per farci felici sta per aumentare il costo di Amazon Prime di circa l’80% annuo (evviva).
Grazie al retargeting, siamo ossessionati da banner che -guarda caso- ci ricordano del nostro interesse per il tale articolo o servizio. “Vuoi non prenderlo? Te lo mostro di nuovo, scommetto che ti interessa” – sembrano dirci questi banner su misura.
Netflix registra i nostri gusti, monitora ciò che guardiamo, ma di recente il suo algoritmo si è spinto oltre. Non solo ci suggerisce i film o le serie TV in linea con quel che abbiamo visto fino al giorno prima, ma addirittura, grazie agli studi (anche qualitativi?) fatti, è anche la locandina del film a cambiare. Consapevoli del fatto che la decisione di cosa guardare viene presa nel giro di pochi secondi, l’immagine è tutto. Dunque, se avremo dimostrato interesse (= clic e visione) per locandine rassicuranti e “buoniste”, allora la nostra locandina di Pulp Fiction sembrerà (non sappiamo come sia possibile) un romanzo sentimentale! Esageriamo, ma non troppo…
Non sappiamo dove arriveremo, ma tali aspetti ci hanno fatto sorgere una considerazione sul nostro mondo.
Anche le aziende, spesso, sono portate a “vedersi dal di dentro”, a dare per scontati una serie di aspetti che scontati non sono. Ci sono casi in cui, complice anche il non fare ricerca, l’azienda si barrica nelle proprie convinzioni di sapere come è il suo target, come agisce, cosa pensa… con il risultato di ascoltare sempre le solite playlist, di vedere sempre il solito film, di comprare sempre il solito prodotto.
La verità, però, spesso è lì fuori, fare ricerca significa in un certo senso mettere in discussione tali punti di vista, aprirsi a nuovi algoritmi, uscire dalla comfort zone del “so come va” e ascoltare il consumatore in maniera diversa, ascoltare cioè i desideri che il consumatore non è in grado di esprimere, e dunque cogliere i bisogni non ancora profilati.
Come? Certamente la ricerca qualitativa può aiutarci a mettere in discussione tali punti di vista, aprirsi a nuovi algoritmi, ascoltare cioè non solo i bisogni già esistenti e reali, ma andare oltre, capire, attraverso strumenti conoscitivi specifici, che cosa potrebbe desiderare o interessare il consumatore futuro; solo andando oltre le motivazioni esplicite, lavorando sulla capacita di interpretazione si possono creare insight per costruire qualcosa che non esiste ancora o che non è ancora stato esperito/desiderato dal consumatore stesso.
Lo psicologo ricercatore qualitativo non ha certo una sfera di cristallo, ma capacità specifiche per vedere oltre, per percepire al di la della semplice analisi fenomenologica tipica degli algoritmi che possono leggere solo ciò che accade/si dice.